sabato 23 novembre 2013

Battiato: «Nel nostro Dna la cultura araba»

 Una cultura fiorita in Sicilia circa mille anni fa, quella arabo-siciliana, oggi completamente dimenticata. Ci pensa Franco Battiato a darle nuovo lustro con lo spettacolo “Diwan, l’essenza del reale”, realizzato un paio d’anni fa in occasione delle celebrazioni per il centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, e che mercoledì alle 21 arriva a Trieste, al Politeama Rossetti.
Battiato, cosa significa Diwan?
«Nella nostra accezione significa canzoniere, raccolta di componimenti poetici».
Ci spieghi questo progetto.
«L’unione di due linguaggi musicali apparentemente differenti».
Come immagina la Sicilia dell’anno Mille?
«Una Sicilia rinascimentale».
Qual è stata la molla che ha fatto scattare il suo interesse?
«Ho studiato i grandi mistici del sufismo».
Quanta cultura araba c’è ancora nella Sicilia di oggi? Che influenza ha avuto su di noi?
«Oggi credo che sia rimasto ben poco, ma è sempre ben conservato nel nostro patrimonio genetico».
C’è un filo che lega il concerto dell’Apriti Sesamo Tour e questo spettacolo?
«Solo alcune canzoni del mio repertorio».
Ci spiega il progetto “Attraversando il bardo”, le riprese che sta realizzando in Nepal...
«Mi è stato commissionato un documentario sulla morte, il 30 novembre parto per Katmandu per intervistare tre lama tibetani, ho già intervistato un ateo e un monaco».
Il suo film su Händel?
«Aspettiamo».
Con Antony and the Johnsons com’è andata? Farete altre cose assieme?
«Quièn sabe... (nella colonna a destra, tentiamo di sopperire all’estrema laconicità della risposta - ndr)».
Ora che la sua “carriera politica” è alle spalle si sente meglio?
«Sì».
Se tornasse indietro direbbe di nuovo sì a Crocetta?
«No».
Grande artista, Battiato, anche quando risponde alle interviste. Memore dell’ammonimento del Vangelo («Il vostro parlare sia sì, si; no, no. Il di più viene dal maligno...»). E forse avviato sulle orme di John Cage, che rispose così a un intervistatore: «La sua è un’ottima domanda, mi consenta di non rovinarla con una risposta».
Del resto stiamo parlando di uno che, un paio d’anni fa, rispose a Lilli Gruber a “Ottoemezzo”: «Non sono né di destra né di sinistra, sto in alto». L’anno scorso, di questi tempi, accettò a sorpresa di entrare nella giunta regionale siciliana. Finì che in una visita al parlamento europeo, a Bruxelles, a marzo, parlò di «queste troie che si trovano in parlamento, farebbero qualsiasi cosa. È una cosa inaccettabile, sarebbe meglio che aprissero un casino...». Polemiche, indignazione, richieste di dimissioni, revoca dell’incarico.
Ma torniamo a noi. E allo spettacolo che arriva al Rossetti. Si diceva della cultura, della scuola poetica arabo-sicilaina che prese vita intorno all’anno Mille in Sicilia. In quasi tre secoli di attività lasciò tra i manoscritti dell’Andalusia e del Nord Africa tracce preziose di una produzione molto ricca e di un fertile intreccio di culture. L’artista siciliano, classe 1945, ha ripreso in mano un millennio dopo queste opere per riproporle in musica. Ne è venuto fuori un omaggio a una cultura dimenticata e a una lingua lontana ma che fa parte della nostra storia e delle nostre radici culturali.
Con lui, sul palco, i musicisti Etta Scollo, Nabil Salameh dei Radiodervish, il tastierista Carlo Guaitoli, Gianluca Ruggeri della Pmce e Ramzi Aburedwan, fondatore degli Al Kamandjâti. Un ensemble multietnico, assieme al quale Battiato propone brani scritti per l’occasione e ripropone pezzi tradizionali nonchè nuove letture di suoi classici. Fra questi: “Haiku”, “L’ombra della luce”, “Aurora”, “Veni l’autunnu”, “Personalità empirica”, “Lode all’inviolato”...


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