Appello ai media italiani: basta castronerie sulle proteste di Gezi Park
13/06/2013
Appello ai media italiani: basta castronerie sulle proteste di Gezi Park scrive Frontiere News
Sono stato a Istanbul tra i manifestanti di Taksim dopo aver trascorso due settimane in Iraq. Non ho avuto, fortunatamente, la possibilità di vedere come i media nostrani avessero affrontato le proteste in Turchia. Potete immaginare quanto sia stato traumatico il rientro in Italia, soprattutto appena mi sono reso conto del fastidioso vociare intorno a una protesta che i giornalisti hanno voluto a tutti i costi interpretare secondo i loro canoni, basati su semplicioneria e arroganza. Chiariamo alcuni punti:
1) Il popolo turco non è tutto contro Erdogan. Provate a girare tra le strade di Kayseri, Izmir o qualunque altra grande città. Poi fate lo stesso nei villaggi. Parlate con i lavoratori, con i conducenti di bus, con i camionisti, con i venditori ambulanti di frutta secca. Rimarrete sorpresi. Per quasi tutti Erdogan è l’uomo delle riforme, della Turchia che diventa super potenza, che non piega la testa all’Europa, che diventa faro “moderato” ispirazione di tutto il Medio Oriente post primavere. Una parte assai consistente della popolazione lo stima (e, ahimè, in alcuni casi lo venera). Forse più in là ci si renderà conto che il suo capitalismo sfrenato non porta solo buoni frutti, ma per ora le cose stanno così. Facciamocene una ragione.
2) Di conseguenza, il popolo turco non è quello di Occupy Gezi. Come ho avuto modo di dire in radio e agli amici di Facebook, c’è purtroppo la tendenza a prediligere la pancia piena alla libertà di espressione. In Turchia la censura esiste eccome, ma il male maggiore è l’attitudine a preferire il “non avere problemi”. Conosco persone che evitano di pronunciare le parole “Kurdistan”, “genocidio”, “assimilazione”. E anche prima di mettere un like su Facebook ci si pensa due volte. Questo ovviamente non è da ricondurre unicamente al governo attuale: la paura di dire la propria riguarda anche i rapporti d’affari, di amicizia, di buon vicinato (un mio amico curdo non ha mai detto ai suoi coinquilini la sua città di origine).
3) Piazza Taksim non è piazza Tahrir. Istanbul non è Tunisi. Ankara non è Damasco. Evitiamo di parlare di primavera turca. Qui nessuno manifesta per il pane. Stiamo parlando di situazioni lontane anni luce dalle rivolte arabe del 2011. Cari giornalisti, evitiamo di giocare con la storia.
4) I manifestanti non sono un blocco unico di persone. Come per ogni rivolta, si tende a fare l’identikit del manifestante. Proviamo ad andare, per una volta, oltre il concetto di folla. A Taksim ci sono belle e brutte persone, studenti che per la prima volta hanno la possibilità di urlare la propria rabbia contro un sistema endemicamente sbagliato e delinquenti che hanno approfittato del trambusto per spaccare vetrine e imbrattare i muri. Evitiamo di demonizzare o esaltare il movimento. Resta il fatto che, prima degli sgomberi, tra le tende di Gezi Park il clima era davvero bello: i curdi potevano liberamente cantare nella propria lingua e danzare i propri balli, le famiglie passeggiavano tranquillamente in un ambiente sereno.
4) La protesta ha cambiato fisionomia. Gli ultimi giorni prima degli sgomberi hanno visto piazza Taksim tornare alla sua vocazione turistica. Solo che, al posto dei villeggianti da crociera c’erano giovani di tutta Europa interessati a respirare l’aria della rivoluzione. Di conseguenza la piazza è diventata un vero bazar: carretti pieni di maschere di V per Vendetta acquistabili per una manciata di lire, venditori di bombolette spray, tavoli con t-shirt del Che e di Ataturk. Molti manifestanti della prima ora avevano nel frattempo abbandonato la piazza, dopo che la genuinità della loro protesta era stata risucchiata da partiti e movimenti politici organizzati.
5) Basta con il mito di Ataturk. Come se non bastasse la patetica resa romantica della rivolta (dove ogni giorno ci si affanna a cercare una nuova “foto simbolo”, dagli amanti manifestanti alla vecchietta con la fionda), i nostri media si sono divertiti anche a idolatrare Mustafà Kemal, meglio conosciuto come Ataturk. Poco importa che l’eroe nazionale turco (se lo si offende si va in carcere) in nome del progresso abbia praticamente annientato ogni forma culturale non conforme a quella maggioritaria, rendendo la vita dei curdi un vero e proprio inferno. Poco importa che il profeta in questione si sia formato tra quei Giovani turchi i cui metodi brutali nello sterminio degli armeni ispirarono un certo Adolf Hitler.
Detto questo, viva i manifestanti genuini, quelli che non vogliono apparire davanti alle telecamere buttandosi sotto un blindato, quelli che sognano una Turchia veramente democratica, plurale e senza censure, quelli che sfidano la brutalità fascista della polizia con la non-violenza. Quelli che non sono identificabili con i prototipi disegnati dai nostri giornalisti ignoranti.
Lo Staff
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